Dall’introduzione della cedolare secca, nel 2011, il numero di contribuenti che la applica è più che quintuplicato. Gli oltre 2,6 milioni di proprietari di case affittate che l’hanno scelta nelle dichiarazioni dei redditi del 2021 (anno d’im posta 2020) possono stare tranquilli, almeno per ora: la versione del Ddl delega sulla riforma fiscale varata dalla Camera accantona l’ipotesi di allinearla al primo scaglione irpe((23%) o alla più alta tra le imposte sostitutive (26%) Il continuo successo della cedolare impone però di fare qualche riflessione su un aspetto spesso sottovalutato: la geografia della tassa piatta e il riparto tra affitti di mercato e lo incremento nel 2021, con un gettito annuo di 3,3 miliardi. Con questi numeri, resta attuale la discussione sul bilancio conclusivo della tassa piatta, in alternativa all’IrDef, per le casse dello Stato: finisce in perdita, oppure il Fisco fa pari e patta, o addirittura ci guadagna? Ci sono poche certezze, al riguardo. Ma, senza considerare gli effetti sull’erario, è ragionevole pensare che la consistente crescita del numero di contratti di locazione assoggettati a cedolare sia dovuta, in parte, all’emersione di contratti in precedenza non registrati e, in parte, alla migrazione – dall’Irpef all’imposta più conveniente – di canoni già dichiarati. Una conferma in- diretta arriva dal raffronto tra l’incremento del numero di contribuenti che scelgono la cedolare e quello del numero complessivo delle case in affitto. Tra il 2014 e il 2019 (ultimo anno per il quale il dato è disponibile) i primi sono aumentati di 1,25 milioni e le seconde di meno di 800mila. La percentuale di locatori i cui canoni sono tassati con cedolare è cresciuta di oltre 20 punti percentuali. Nel 2019 ha superato il 75% del totale delle case affittate; nel Lazio siamo addirittura al 100% e in altre regioni a cavallo del 90% (Marche, Umbria, Toscana per esempio), Certo: un locatore può avere più case, e due possono averne una in comproprietà, ma i dati restano assolutamente significativi.
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