Comprar casa? Potendo scegliere, ma anche no. «Tra gli italiani che vivono in affitto – spiega Andrea Tozzi, senior research manager di Casadoxa – il 42% dei Gen Z (18-26 anni) preferisce il canone per aver la flessibilità di cambiare lavoro e città. Il 44% dei millennials (27-42 anni) per potersi permettere una casa migliore che, altrimenti, non potrebbe comprare. Il 60% dei boomers (58-76 anni) perché acquistare costa troppo». L’affitto per scelta e non per doloroso ripiego si fa strada – con fatica ma con tenacia – nell’Italia della piccola e frammentata proprietà immobiliare.

Una crescita galoppante

Nel 2022, infatti, si sono avvicinati al miliardo (oltre 850 milioni di euro, che erano appena 50 milioni nel 2018) gli investimenti, in Italia, nel build to rent. Ovvero, l’evoluzione dell’affitto. Non da piccolo locatore a singolo locatario, ma costruttori e sviluppatori che realizzano edifici da zero, o mettono in campo profonde ristrutturazioni dell’esistente, con lo scopo preciso di ricavare un ampio numero di appartamenti, tutti destinati unicamente alla locazione. Lo stock immobiliare viene, quindi, acquistato in blocco da investitori istituzionali e gli affitti sono gestiti centralmente da un unico soggetto. Che poi li gestisce sempre più tramite app e servizi digitali.

«In Germania, dove il sistema abitativo si fonda principalmente sul settore privato ed è gestito da player specializzati, spesso quotati – ha spiegato Andrea Mancini, head of living investment properties di Cbre – gli investimenti, in questa asset class, hanno toccato, l’anno scorso, i 50 miliardi (su un complessivo di 110 miliardi). Cinque volte quelli italiani in tutto il commercial real estate. In Emea è la seconda asset class immobiliare per volume di investimenti (dopo gli uffici). In Italia, siamo stabili al 7-8% da un paio d’anni, essendoci state transazioni principalmente value add».

E i rendimenti? «A Monaco – prosegue Mancini – i rendimenti sono al 2,5%, molto sotto al 3,5% degli uffici prime. In Italia, sinora abbiamo volumi ridotti, poche operazioni, principalmente di sviluppo e riposizionamento. Al quarto trimestre 2022, la previsione di Cbre per il Multifamily, in Italia, stima rendimenti core al 4 per cento».

In un Paese di piccoli proprietari e di immobili vetusti, malgestiti ed eccessivamente frazionati, il build to rent sembra per ora, un fenomeno limitato alla città di Milano (anche se sono nate singole esperienze sia a Torino sia a Genova) e a una nicchia di clienti abbienti.

Il nodo dell’accessibilità

Una gestione moderna e centralizzata è basata sui servizi che offre. Concierge, manutenzione, palestra, spazi per coworking, baysitting, feste. Gestione dei servizi, degli affitti e riparazioni via app. Un modello che, a differenza di quello tedesco dove i canoni sono calmierati a livello statale – sembra rivolgersi solo ai managers e alla fascia alta di mercato, dimenticando quei Gen Z e millennials colti, global, flessibili ma con retribuzioni basse.

«L’accessibilità del build to rent anche a una fascia media di mercato è un obiettivo – ha detto Emiliano Di Bartolo, amministratore delegato G Rent – che si persegue aumentando lo stock di offerta a disposizione. Maggiori saranno le unità affittabili e maggiore la possibilità di rendere accessibili servizi a canoni minori».

«Delle 66 unità immobiliare di Flat Tower Parco Vittoria affittate in build to rent da due anni e mezzo – ha spiegato Maurizio Monteverdi, amministratore delegato di Morning Capital – abbiamo maturato 1,75 milioni di euro di ricavi. I servizi: palestra, coworking, spazio feste e una complessa ed integrata digitalizzazione dell’ecosistema». Per Monteverdi «si può fare build to rent anche per fascia media e medio-bassa senza eliminare i servizi. Ma calibrandoli su livelli diversi. Per farlo, però, è essenziale costruire quello stock che oggi non c’è.

Fonte IlSole24ore – Laura Cavestri

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