Laddove nell’immobile affittato scoppi un incendio, che distrugga o danneggi gravemente l’immobile, il conduttore ne risponde in virtù dell’art. 1588 c.c., salvo che riesca a provare che il danno sia accaduto per causa a lui non imputabile. Questo l’arresto della Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 877 del 14 aprile 2022.
Danni all’immobile locato: a che titolo ne risponde il conduttore? La pronuncia
Tizia, proprietaria di un immobile, lo concede in locazione ad uso diverso dall’abitativo a Caio.
In particolare, l’immobile viene concesso ‘ad uso laboratorio’: Caio avrebbe qui esercitato la propria attività artigianale di costruzione e riparazione di reti per letti.
In seguito, Caio inizia ad utilizzare l’area pertinenziale dell’immobile locato ed apporta modifiche al medesimo immobile, allo scopo di ‘ampliare’ la propria attività alla fabbricazione di oggetti in ferro, rame e altri metalli: in particolare, l’area pertinenziale, che fungeva in precedenza come deposito, diviene deputata alla verniciatura, viene ancorata una tettoia ad immobile di proprietà di terzi, confinante con quello locato, viene realizzata una fontana in muratura e vengono installati, sempre nell’area pertinenziale, dei binari per utilizzare un movimentatore di materiali in legno e molti spazi condominiali vengono occupati con suppellettili di proprietà e uso di Caio.
Tizia invia una diffida, a mezzo legale, a Caio, intimandogli di ripristinare lo status quo ante e di cessare immediatamente l’occupazione dell’area pertinenziale e degli spazi comuni condominiali, pena l’applicazione della clausola risolutiva espressa prevista nel contratto. A fronte dell’inerzia di Caio, Tizia comunica a Caio l’avvenuta risoluzione di diritto della locazione, in base al contratto. Dopo pochi giorni da detta comunicazione, scoppia un incendio nell’immobile, con danni al locale e intervento dei VVF.
A questo punto, Tizia promuove un accertamento tecnico preventivo (ATP) allo scopo di far verificare lo stato dei luoghi e le cause dell’incendio e avvia un’azione locatizia (secondo il rito previsto dall’art. 447 bis c.p.c., mutuato dal rito del processo del lavoro), volta a ottenere l’accertamento della responsabilità del conduttore Caio nella causazione dell’incendio e la condanna del medesimo al risarcimento dei danni.
Il conduttore Caio si costituisce sostenendo che non è da imputare a lui la causazione dell’incendio, bensì ad un fulmine che aveva colpito l’abitazione: inoltre, egli formula domanda riconvenzionale, cioè chiede la condanna dell’attrice Tizia alla restituzione della cauzione versata e il risarcimento dei danni che Caio assume di aver subìto per la sospensione forzata della sua attività in seguito all’incendio. Il Tribunale di Milano, acquisito l’ATP, esperito l’interrogatorio formale di Caio e sentiti i testi indicati da entrambe le parti, accoglie la domanda di Tizia, riconoscendo la responsabilità di Caio per i danni causati all’immobile.
Secondo il Giudice, Caio non avrebbe fornito la prova che l’incendio fosse scoppiato per causa a lui non imputabile. Inoltre, la presenza nell’immobile di materiale altamente infiammabile (quello utilizzato per la ‘nuova’ attività di Caio), conservato in spregio alla normativa antincendio, nonché il fatto, accertato in istruttoria, che il fulmine si fosse sì verificato, ma che non avesse colpito l’immobile condotto sono circostanze che formano il convincimento del magistrato circa la colpevole condotta di Caio. Caio appella questa pronuncia, ma la Corte d’Appello di Milano respinge il gravame.
Mutamento destinazione d’uso: facciamo chiarezza
Un breve cenno sulla questione, dato che non forma oggetto del decisum, ma viene menzionata, per quanto en passant, sia da Tizia sia dagli estensori della pronuncia.
Quando parliamo di mutamento della destinazione d’uso in relazione all’immobile locato abbiamo, come riferimento due norme, l’art. 1587 c.c. e l’art. 80 della Legge 27 luglio 1978, n. 392.
La “destinazione d’uso” cui fa cenno l’art. 80 della Legge 392/78 è da intendere come mutamento del regime giuridico della locazione, quindi stiamo parlando di ‘uso abitativo’ e ‘uso diverso’ – e anche di fattispecie con discipline parzialmente diverse all’interno di ciascun genere, ad esempio il passaggio da un ‘uso diverso’ senza contatti diretti con il pubblico a un ‘uso diverso’ con contatti diretti con il pubblico oppure il passaggio da un ‘uso abitativo’ a carattere transitorio a uno stabile. La legge n. 392/78 intendeva evitare che il conduttore eludesse le norme sul regime giuridico e, una volta acquisita la disponibilità di un immobile per abitarvi, vi stabilisse un’attività professionale o commerciale e viceversa. Per questa tipologia di mutamento di destinazione d’uso, la norma citata (art. 80 Legge n. 392/78) prevede che il locatore possa chiedere la risoluzione del contratto entro 3 mesi dal momento in cui ha avuto conoscenza e, comunque, entro un anno dal mutamento di destinazione.
Se il locatore agisce tardivamente rispetto ai detti termini oppure non agisce affatto, il regime della locazione si converte in quello applicabile al nuovo uso instaurato dal conduttore – ed in caso di uso promiscuo, a quello che risulti prevalente.
L’art. 1587 c.c. disciplina invece qualsiasi altro mutamento della destinazione d’uso e qui sta la difficoltà dell’interprete: a che cosa ci riferiamo?
La Cassazione ha più volte cercato di spiegare che l’art. 1587 c.c., che prevede che il conduttore debba servirsi della cosa locata per l’uso determinato nel contratto o per l’uso che può altrimenti presumersi dalle circostanze, significa che: qualora la destinazione dell’immobile sia determinata nel contratto, farà fede questo, secondo le norme sull’interpretazione del contratto solamente qualora essa non sia stata indicata dalle parti, l’interprete potrà fare riferimento alle circostanze da cui la si possa presumere, che dovranno essere coeve alla stipula del contratto (cioè, si dovrà esaminare la situazione nel momento iniziale del contratto, non nel segmento temporale in cui nasce la necessità di verificare se la destinazione è mutata o meno) (Cassaz., sente 15 febbraio 2005, n. 2976) la prova dell’inadempimento è sempre a carico del locatore laddove si verifichi mutamento della destinazione prevista contrattualmente, il Giudice non dovrà dichiarare risolto il contratto per l’inadempimento del conduttore per il semplice fatto che costui ha violato una clausola contrattuale, ma dovrà anche accertare, ai sensi dell’art. 1455 c.c., la gravità dell’inadempimento del conduttore, perché il mutamento di cui all’art. 1587 c.c. viene in rilievo solamente laddove si rinvenga un’alterazione dell’equilibrio giuridico – economico del contratto e del rapporto tra locatore e conduttore per effetto del mutamento la semplice tolleranza o la scienza ed inerzia del locatore rispetto al mutamento della destinazione operato dal conduttore non comportano acquiescenza ad essa ai sensi dell’art. 1587 c.c. (Cassaz., sent. 26 luglio 2002, n. 11055). Nel caso sottoposto alla Corte milanese, il passare dall’attività di costruzione e riparazione di reti per letto a quella di fabbricazione oggetti di metallo non muta, sostanzialmente, l’uso pattuito dell’immobile, in quanto le due attività ricadrebbero comunque nell’ambito della locazione “ad uso diverso dall’abitativo” (ex pluribus, Cassaz., sent. 1° aprile 1996, n. 2962).
Come preannunciato, né il Giudice di prime cure né la Corte hanno speso parole per spiegare se ritenessero integrato il mutamento di destinazione previsto dall’art. 1587 c.c., perché la questione principale è risultata essere afferente al danneggiamento del bene locato ed alla responsabilità del conduttore.
Perdita e deterioramento della cosa locata
Recita l’art. 1588 c.c.: «Il conduttore risponde della perdita e del deterioramento della cosa che avvengono nel corso della locazione, anche se derivanti da incendio, qualora non provi che siano accaduti per causa a lui non imputabile». L’elaborazione giurisprudenziale è arrivata a chiarire che il conduttore, che già è tenuto ad utilizzare la ordinaria diligenza nella custodia dell’immobile (in questo caso) locato, non si libera dalla responsabilità, nel caso di perimento o deterioramento dell’immobile per incendio, se non riesce a provare che la causa dell’incendio sia da imputare ad eventi non riconducibili a lui.
Pertanto, la causa ignota oppure dubbia rimane a suo carico; il conduttore è responsabile e tenuto a risarcire il danno, anche laddove non sia possibile stabilire da dove ha originato l’incendio o sussista un dubbio se lo stesso sia stato scatenato da A o B. Specifica altresì la Cassazione che «non è sufficiente che il conduttore non sia stato ritenuto responsabile in sede penale, perché ciò non comporta di per sé, l’identificazione della causa, ma occorre che questa sia nota e possa dirsi non addebitabile al conduttore». (Cassaz., sent. 06 febbraio 2007, n. 2550). Ancora: dove non sia individuata in concreto e in modo oggettivamente apprezzabile la causa dell’incendio, non ha alcuna rilevanza la diligenza che il conduttore abbia usato nel custodire l’immobile (Cassaz., sent. 27 novembre 2002, n. 16762).
Unica ‘mitigazione’ di questa responsabilità si rinviene in una pronuncia alquanto risalente della Corte regolatrice, dove la stessa afferma che «il rigore di detta regola probatoria [quella di cui all’art. 1588 c.c., N.d.A.] viene meno quando sia già accertato, attraverso gli elementi di fatto acquisiti a mezzo delle risultanze processuali, che il luogo ove l’incendio ha avuto origine, oltre ad essere al di fuori dell’area interna dell’appartamento, rimane estraneo alla sfera nella quale, secondo la comune esperienza, può spaziare la vigilanza del conduttore medesimo e sia esclusa la esistenza di cause di propagazione a lui riferibili». (Cassaz., sent. 10 giugno 1961, n. 1354).
Sembra in apparente contrasto con quanto sopra una pronuncia recente della Cassazione, citata nella sentenza della Corte d’Appello milanese, ove si afferma che «sussiste la responsabilità del conduttore di un capannone per i danni da incendio innescati da un fulmine abbattutosi nei pressi, per il fatto che egli non aveva provato che i materiali infiammabili custoditi all’interno fossero stoccati in modo tale da escludere ogni rischio conseguente, secondo quanto previsto dalla normativa tecnica di riferimento». (Cassaz., sent. n. 574/2021), ma rammentiamo che, in questo caso (quello esaminato dalla Corte nel 2021) la causa dell’incendio era nota (un fulmine che aveva colpito i pressi del capannone condotto dal conduttore), mentre il conduttore ha fallito a dimostrare la propria diligenza e la non imputabilità dell’incendio a sé medesimo – se egli avesse stoccato i materiali in modo tale da evitare il rischio di incendio, allora sarebbe andato esente.
Nel caso esaminato dalla Corte d’Appello di Milano, invece, la causa dell’incendio va quantomeno qualificata come dubbia: infatti, mentre il conduttore invoca la causa a lui non imputabile menzionando il fulmine che colpì la zona nella data del sinistro, dall’istruttoria assunta in corso di I° la vicenda risulta, lo ribadiamo, quantomeno dubbia.
In particolare, la presenza di asta parafulmine sul fabbricato adiacente l’ingresso all’immobile accertata dal CTU in sede di ATP, l’ammissione da parte del conduttore Caio, durante il suo interrogatorio formale, di conservare materiale altamente infiammabile all’interno dell’immobile, così come peraltro dichiarato ai VVF in concomitanza con il loro intervento, l’ulteriore ammissione, durante lo stesso interrogatorio formale, di aver l’abitudine di stoccare materiali plastici e cartacei sotto la tettoia, le dichiarazioni dei testi che non confermarono il fatto che il fulmine fosse caduto sull’immobile condotto da Caio, bensì a terra oppure in luogo non rilevato dal testimone, sono tutti elementi che depongono a favore di un impossibile accertamento della causa oggettiva dell’incendio. che quindi, come detto sopra, rimane a carico del conduttore.